Per andare dove dobbiamo andare, dove dobbiamo andare?

di Gruppo Prima Pagina

Abbiamo puntato alto quest’anno: ci siamo chiesti cosa significa, cosa può significare oggi parlare diprogresso, di crescita, di futuro. Un futuro migliore e possibile, ovviamente. Abbiamo cominciato interrogandoci sui valori che dovrebbero costituirne le fondamenta: imprescindibili la solidarietà e il rispetto (per sé stessi, per gli altri, per l’ambiente), la sostenibilità, sociale e ambientale, requisito per
qualsiasi idea di sviluppo e crescita, la libertà (mia e degli altri).
Ci siamo domandati a che punto siamo, come siamo, quali sono i tratti caratteristici del mondo in cui stiamo vivendo. Cercando di rifuggire qualsiasi tentazione di nostalgia per i tempi andati, che pure nel loro ritmo lento e poco incline ai cambiamenti tendono ad apparire rassicuranti, ci siamo abbastanza riconosciuti nell’idea di condizione postmoderna di Lyotard: si parla “dell’epoca che va dalla fine degli anni Cinquanta sino ai giorni nostri, in cui centrale diviene il ruolo della tecnologia (e in particolare dell’informatica) nel creare in particolar modo una mentalità nella quale il sapere diviene merce…che dovrà poi essere venduta, con tutte le implicazioni economicopoliticosociali
che seguono”. (Antonino Magnanimo, https://www.filosofico.net/lyotard.htm).
E, sempre con Lyotard, ci siamo interrogati sulla morte: “l’odierna elusione e banalizzazione della morte attraverso il silenzio e rituali degradati è spiegabile con l’impotenza a integrare nel proprio vissuto le dimensioni fondamentali della esistenza”. (ibidem)
La diffusa spietatezza, la difficoltà ad accogliere i limiti propri e degli altri, tutti quei “è un problema tuo”, il mito della efficienza ad ogni costo, il culto del ritmo forsennato nel lavoro e nelle relazioni, sembrano nell’indifferenza generale lasciare indietro sempre più persone, che non ce la fanno, che arrancano, che sono troppo stanche per continuare a correre: dai casi di Hikikomori a quanti e quante si ritirano dai giochi, si isolano, espulsi o autoesclusi. A volte basta uno sbaglio per essere tagliati fuori, e rientrare in quella che Verga chiamava la fiumana del progresso è spesso proibitivo, schiacciati dalla disperazione e dalla errata convinzione che sì, forse è anche giusto essere abbandonati, come certe specie animali decidono di abbandonare chi del branco si è gravemente ferito. I vinti.
Se il bene materiale è ciò che trionfa, chi non ne possiede è inevitabilmente destinato a soccombere a quella lotta disperata per la vita, dettata dal solo egoismo individuale, che è la Fiumana del Progresso.
Con la Fiumana, Giovanni Verga si riferisce a tutta quella condizione socioeconomica italiana descritta nel Ciclo dei Vinti, che emargina coloro che non riescono a stare al passo con il progresso della società, travolgendo violentemente una classe sociale dopo l’altra, senza mai arrestarsi, rendendo i vincitori del momento i Vinti del futuro.
Come uscire da queste dinamiche, acuite dalla schizofrenia generata dalla precarizzazione, dallo sfruttamento nel lavoro e dalla
strumentalizzazione dei rapporti che pervade le nostre vite, quando dobbiamo oscillare fra tempi morti dove sembriamo invisibili e i nostri bisogni non sono riconosciuti, ad altri momenti dove la capacità di adeguatezza a ritmi frenetici è l’unico metro di misura
del nostro valore di persone? Cosa fare quando gli anni passano e quei ritmi non sono più adatti a noi, cosa fare di noi quando la giovinezza, altro culto di questa epoca, è finita? Andarsene il prima possibile per non essere di peso, per non disturbare? Queste sono questioni di non poco conto, se ci soffermiamo a riflettere su quali ripercussioni possono rivestire nelle politiche per la salute, già pesantemente penalizzate. Se si tratta di decidere come investire risorse all’osso, a quale valore si farà riferimento?
Ci ha convinto invece, e questo pensiamo dovrebbe essere un punto fermo per discutere cosa sia civiltà per una idea di futuro e progresso, l’antropologa Margaret Mead, la quale riteneva che il primo segno di civiltà in una cultura antica non fossero ami, pentole di fango o pietre da
macinare, bensì un femore rotto e poi guarito. Mead, infatti, ha spiegato che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori.
Nessuno deve essere lasciato solo, questa è l’idea di civiltà che ci piace.
Questo stile di vita va cambiato. Per i disvalori che sottende, per il futuro che prefigura. Pensiamo ad un futuro dove trovino spazio anche i limiti, l’inefficienza, il rispetto, la solidarietà, dove morte e vecchiaia abbiano cittadinanza e non debbano essere tenute nascoste o mascherate. Dove l’educazione, l’istruzione, la creatività e lo stimolo a sviluppare idee abbiano come obiettivo prioritario progettare il benessere del pianeta, di chi ci vive e di chi ci vivrà, non migliorare l’efficienza nella produzione di beni e servizi spesso inutili e dannosi,
prodotti in sovrabbondanza e inquinanti.
Rispetto alla condizione dei giovani, il precariato e la disoccupazione sono diventati, poco a poco, i due grandi mali insanabili della nostra società.
L’Italia è infatti l’unico Paese europeo dove i salari sono diminuiti rispetto a trent’anni fa, mentre il costo della vita continua a crescere, dove
grandi aziende spesso sfruttano i lavoratori senza metterli in regola o pagandoli pochissimo, e dove ai giovani, perennemente precari, vengono offerti contratti farsa e stage infiniti e sottopagati, quando pagati.
Per un giovane, entrare nel mercato del lavoro è l’inizio di un’ordalia che anni di studio universitario possono solo spostare un po’ più avanti nel tempo, ventilando prospettive tiepidamente più ottimiste. Fortunatamente in Italia la ricchezza privata è straordinariamente elevata (anche se la distribuzione non è omogenea), così, mettendo da parte velleità di indipendenza, un giovane può nel migliore dei casi fare conto sull’appoggio della famiglia a oltranza, dilapidando patrimoni.
E se dei drammi sociali del precariato se ne parla ogni giorno, molto meno gettonati invece sono i drammi psicologici che si annidano nella quotidianità dei giovani italiani. Un ginepraio di stress, insicurezza e solitudine che sembrano essere la vera cifra di un mercato del lavoro sempre più liquido e competitivo.
Sono tanti i temi che abbiamo trattato, e sicuramente anche maltrattato; altri ne troverete citati all’interno, come il concetto di non luoghi ed iperluoghi, la gentrificazione, la turistificazione, le trasformazioni della famiglia. Ci siamo misurati, sfrontatamente, con una impresa enorme e di certo al di sopra delle nostre piccole possibilità. Al termine, però, qualche piccola risposta a queste grandi domande (quale progresso,
quale futuro, quale crescita?) ci sentiamo di averla. Non ci sarà un futuro per tutti e tutte, per nessuno, senza cambiamento di quegli stili di vita che hanno ormai dimostrato ampiamente la loro insostenibilità. La complessità del nostro mondo, e delle nostre società nelle loro interconnessioni globali, è tale da non poterci più permettere scelte non meditate. La leggerezza e l’ingenuità non potranno costituire assoluzione e discolpa per le conseguenze che avranno le nostre scelte (individuali, collettive, sociali, planetarie), in futuro. Potremo sempre meno permetterci di vagare come Totò e Peppino nel film La Malafemmina, per Milano domandando: “Per andare dove dobbiamo
andare, da che parte dobbiamo andare?”. Perlomeno dove dobbiamo andare, sempre di più, dovremo saperlo.