C’era una porta e poi una porta
circondata da una foresta
Guarda, i miei occhi non sono
i tuoi occhi.
Ti muovi in me come pioggia
udita
da un altro paese.
Sì, tu hai un paese.
Un giorno lo troveranno
mentre cercano navi naufragate…
Una volta mi sono innamorato
durante un incidente d’auto al rallentatore.
Avevamo un’aria così pacifica, la sigaretta alla deriva dalle sue labbra
mentre le teste frustavano all’indietro
nel sogno e tutto
veniva perdonato
Perché quello che hai udito, o che udrai, è vero: ho scritto
un’ora migliore sulla pagina
e ho guardato il fuoco riprendersela.
C’era sempre qualcosa che bruciava.
Capisci? Chiudevo la bocca
ma sentivo ancora il sapore di cenere
perché ero ad occhi aperti.
Dagli uomini ho imparato a lodare lo spessore dei muri.
Dalle donne
ho imparato a lodare.
Se ti venisse dato il mio corpo, fallo sdraiare.
Se ti viene data una cosa qualsiasi
assicurati di non lasciare
tracce nella neve. Sappi
che non ho mai scelto
in che modo mutano le stagioni. Che è sempre stato ottobre
nella mia gola
e in te: ogni foglia
si rifiuta di arrugginire.
Svelto. Lo vedi il buio rosso che cambia sfumatura?
Significa che ti sto toccando. Significa
che non sei solo – perfino
quando non sei.
Se arrivi prima di me, se pensi
a niente
e la mia faccia appare, increspata
come una bandiera lacera – torna indietro.
Torna indietro e vai a cercare il libro che ho lasciato
per noi, colmo
di tutti i colori del cielo
dimenticato dai becchini.
Usalo.
Usalo per provare che le stelle
sono sempre state quello che sapevamo
fossero: i fori d’uscita
di ogni
parola che ha fatto cilecca.
di Ocean Vuong, poeta vietnamita
(Traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan)
da “Cielo notturno con fori d’uscita”, La nave di Teseo, 2017