Ritiro di dieci giorni in un monastero in Thailandia

 “Tranne le ore che scorrono col sonno noi, stranieri nati in continenti diversi, eravamo sempre insieme; una comunità silenziosa e uniforme di esseri umani tutti vestiti di bianco, come una grande onda luminosa con tante piccole macchie che si muovevano: visi, piedi, mani, capelli.

Era la prima volta che partecipavo ad un ritiro con la regola del silenzio totale, mi ero catapultata in un mondo nuovo, irreale, che avrebbe sgretolato le mie abitudini e convinzioni.

Ricordo ancora l’immagine rarefatta dal vapore che saliva da un corso d’acqua termale in mezzo alla giungla, dove noi donne mute – nude sotto i parei colorati in contrasto con gli abiti bianchi coprenti, che vestivamo nelle ore restanti del giorno- ci immergevamo con un’iguana. Nei timpani tamburellava il chiacchericcio delle rane e gli schiamazzi delle voci e della musica portati dal vento: il villaggio era vicino.

Tutto ciò risuonava dentro la nostra carcassa di pelle e ossa, come un coro di benvenuto alla gioia che ci gonfiava il torace. La mancanza delle nostre parole, di un linguaggio codificato, ci stava spogliando dall’identità, svelando a poco a poco quella naturalezza intrinseca, la nostra parte animale, che ti fa sentire parte integrante con la natura a te attorno, in unione con il mondo; tutto va bene, tutto è perfetto e diversità è solo una parola che qualcuno ti ha insegnato.

I pensieri erano oramai dei visitatori occasionali, ero parte del gruppo, lo percepivo, mi muovevo al suo interno, eravamo noi e l’io se ne era quasi andato.

Un’altra magia accadeva ogni sera quando al buio, facendo la meditazione camminata a piedi nudi sul manto umido d’erba, seguivamo una monaca con la testa rasata. Il percorso era segnato da candele bianche accese attorno ad un laghetto. Quest’ultimo era molto scuro illuminato solo dalle fiamme riflesse nell’acqua, dentro la quale vi erano delle rane che emettevano un gracidare così forte, da sembrare di avere solo un senso sopravvissuto a tanto suono, l’udito; tenere le labbra serrate era diventata oramai un’abitudine ma non fu facile lo ammetto.

Poi quando il ritiro finì e tornò il dono della parola, fu quasi un’esplosione di sorrisi, abbracci, voglia di conoscersi, anche toccarsi; dopo un’ esperienza del genere anche la persona del gruppo che trovi più odiosa, diventa splendida, l’arroganza scompare, o quasi: perché si è tutti uniti e felici, non più diversi”.

Amneris